Wednesday 8 November 2017

La Famiglia di Augusta Schiff

Da qualche mese sto rielaborando la storia della mia famiglia che mia madre aveva scritto anni fa. Tra gli antenati più lontani citava anche gli Schiff, in particolare le due sorelle Paolina e Augusta.
Cercando loro informazioni in Internet, ho trovato il sito di Frank Gent, che mi ha aperto la porta su una grande saga famigliare. Però mancava una cosa: “Che fine ha fatto Augusta?” – chiedeva Frank. Così mi è sembrato giusto dargli questa informazione, per ricambiare quelle che ho ricevuto da lui. Ma è anche un modo per togliere Augusta da quel grigio oblio in cui era finita nella sua famiglia.

Il racconto inizia a Milano, dopo il dicembre 1861, quando mamma Babette Schiff e i suoi figli si trasferirono qui, lasciando Trieste e raggiungendo il padre Samson, che già da un paio d’anni aveva iniziato a lavorare nella grande città, da poco diventata italiana.
Gli Schiff aprivano spesso il loro salotto agli ospiti, un salotto che si dice fosse frequentato da intellettuali, spesso di idee liberali, forse anche massoniche. Un personaggio della famiglia che si faceva notare era certamente Paolina, allora ventenne, con vistosi capelli rossi e bellissime mani. (pare che molti anni dopo sua nipote conservasse ancora un calco in gesso di una sua graziosa piccola mano). Paolina probabilmente si ispirò ai discorsi e alle idee che circolavano in quelle occasioni per il suo romanzo “Il profugo”. L’eroe, dopo aver partecipato agli eventi del 1848, deluso dai fallimenti, va a morire combattendo per la libertà della Grecia, come Santorre di Santarosa. Paolina era solita impastare con le sue mani biscotti di mandorle per gli ospiti ed era molto corteggiata, anche se non si sposò mai.
Più in ombra stava Augusta, sua sorella maggiore, più vecchia di due anni, ciò fino a quando un giorno entrò nel loro salotto un uomo di oltre trent'anni, dai capelli castani un po’ lunghi e dalla barba squadrata. Si chiamava Giovanni Spazzi, era veronese, e faceva parte di un'antica famiglia di scultori e artigiani della pietra. Gli Spazzi erano infatti una delle tante famiglie che facevano parte dei cosiddetti “maestri intelvesi o magistri antelami”, originari della val d’Intelvi, vicino a Como, attorno al ’300. Da lì nel corso dei secoli, andarono a lavorare in molte parti d'Europa.


Fig. 1 Augusta Schiff


Fig.2 quadro a olio con ritratto di Giovanni Spazzi

Antonio Spazzi, padre di Giovanni, aveva lasciato Pellio e la sua valle alla fine del secolo precedente e si era trasferito a Verona, iniziando il suo lavoro di scultore nella zona. Si era sposato con Serafina, figlia del noto scultore Grazioso Rusca, che in quegli anni era responsabile della parte statuaria nella Fabbrica del Duomo di Milano. Dal matrimonio erano nati sei figli e tra questi Grazioso e Giovanni. Il primogenito Grazioso (lo stesso nome del nonno) aveva iniziato a lavorare nella bottega del padre, ma solo dopo aver frequentato l’Accademia di Brera ed anche Giovanni si era unito a loro, dopo gli anni di studio alle Belle Arti di Venezia.
La bottega degli Spazzi era diventata una delle più rinomate della città , soprattutto dagli anni ’50 in poi, quando, anche nel Cimitero Monumentale di Verona, stava cominciando a diffondersi l’usanza di impreziosire le tombe con statue, cosa allora in gran voga in molte città italiane ed europee
I due fratelli avevano vinto vari concorsi e la loro carriera era molto promettente. Però entrambi erano anche convinti sostenitori di Mazzini e fu così che Giovanni finì per cadere nelle mani della giustizia austriaca attorno al 1861 e venne condannato all’esilio. Se ne andò a Milano e fu proprio lì che incontrò Augusta. La conclusione è che il 30 agosto del 1863 i due si sposarono (con rito cattolico).


Fig.3 Certificato di matrimonio di Giovanni e Augusta

Tuttavia i mazziniani, sostenitori della repubblica e non della monarchia, non piacevano nemmeno nel nuovo Regno d’Italia. Alla fine la giovane famiglia Spazzi-Schiff dovette lasciare anche Milano e andò ad abitare a Desenzano sul Garda, dove, il 13 dicembre 1864 nacque la loro figlia Vittoria. Purtroppo la loro felicità durò poco, perché il 1° gennaio 1866, Giovanni, tornato di nascosto a Verona, moriva per malattia, lasciando la vedova con la figlia piccola e senza risorse economiche.
Il fratello Grazioso cercò di far acquistare al Comune di Verona una statua del Sanmicheli realizzata da Giovanni, per aiutare Augusta e Vittoria, ma invano.
Augusta dapprima tornò a Milano, dove trovò lavoro in un asilo per bambini, forse aiutata dalla sorella Ottavia, che già lavorava in quel settore. Poi però gli amici mazziniani di Giovanni, aderenti alla Giovane Europa, riuscirono a trovarle un’opportunità di lavoro in una città lontana: Direttrice dell'Asilo di Carità per l'Infanzia a Fiume (oggi Rijeka, in Croazia).
Augusta si dimostrò una donna coraggiosa e determinata e accettò di affrontare questa avventura, da donna sola, con una figlia, in una città dove non c’era nessun parente a cui potersi appoggiare. Agli inizi degli anni ’70 si trasferì un’altra volta, l’ultima.
Fiume era una città molto particolare. Porto franco dell’Ungheria sull’Adriatico, era abitata per metà da una popolazione di origine italiana, che parlava un dialetto veneto, per un quarto da croati e per il resto era decisamente multietnica.
La sua tradizione di città commerciale e la sua posizione privilegiata nel tragitto dal mare all’entroterra balcanico, avevano infatti favorito l’arrivo di gente di molte nazionalità e religioni, che convivevano da decenni con grande tolleranza reciproca.
L’Asilo di Carità per l’Infanzia era nato nel 1841, su iniziativa di Ida Csapò, moglie del nuovo governatore. Ospitava ogni giorno 30 bambini piccoli di famiglie povere, dando loro tre pasti e trattenendoli fino a sera, in modo che i genitori potessero lavorare. Una specie di asilo-nido. Augusta andò a dirigerlo, ottenendo apprezzamenti e riconoscimenti per quanto faceva in favore dei piccoli.

Augusta teneva molto all’istruzione e curò che sua figlia crescesse conoscendo bene sia l’italiano che il tedesco e che studiasse la letteratura classica. Vittoria studiava anche nel parco e, seduta sulle panchine, leggeva la Divina Commedia di Dante, nonostante avesse solo 15 anni. Però una ragazza di quell’età che legge Dante nel parco non poteva di certo passare inosservata ad un professore. Infatti fu così che György Kàvulyak, insegnante di storia e filosofia ungherese, si accorse di lei.
Anche se l’età era molto diversa (26 anni lui, solo 15 lei), gli interessi culturali e letterari li portarono a frequentarsi e tre anni dopo, nel 1883, si sposarono. Immaginiamo il sospiro di sollievo di mamma Augusta, per aver sistemato la giovane figlia con un promettente professore. Il passo successivo fu ovviamente quello dei figli. Purtroppo il primo, Arpad, morì poco dopo la nascita. Poi vennero Pia nel 1884, Akos nel 1886, Geza nel 1888, Maria, detta Mary, e infine Giorgio (ai primi vennero dati nomi ungheresi).



Fig.4 fotografia di Vittoria da giovane




Fig.5 fotografia di Gyorgy da giovane





Fig.6 certificato di matrimonio di Gyorgy e Vittoria

Fig.7 fotografia di Pia da giovane

Fig.8 fotografia di Akos da giovane


Fig.9 fotografia di Geza da giovane

Fig.10 fotografia di Mary da giovane

Fig.11 fotografia di Giorgio da giovane

György era molto preso dal lavoro e dallo studio. Infatti scriveva testi di filosofia e nel 1887 pubblicò addirittura un dizionario italiano-ungherese.
Invece Vittoria aveva imparato dalla madre a gestire con attenzione l’economia domestica, viste le traversie da loro passate. Era lei che teneva la “cassa” e decideva molto spesso come e quanto spendere. Questo fu un aspetto che segnò molto il rapporto tra lei, i figli e le nuore.

Fig.12 fotografia Augusta da vecchia


Fig.13 fotografia della scatola d’argento

Fig.14 dettaglio della dedica sulla scatola d’argento

Però va anche detto che la famiglia era numerosa, dato che certamente la madre Augusta era rimasta a vivere con la figlia. Anche se Vittoria lavorava con la madre all’asilo (come testimonia nel 1908 una lettera di encomio e una piccola scatola d’argento con dedica per i 25 anni di lavoro), di certo la paga non era molto alta. Quella di György era discreta, visto che era diventato “maestro dirigente”, cioè sovrintendente scolastico, ma otto persone sono tante. Vittoria però risparmiava soprattutto perché aveva due importanti obiettivi: far studiare tutti i figli e comprare una casa per far vivere con tranquillità la famiglia. E vedremo che li otterrà entrambi.
Per quanto riguarda l’istruzione dei figli, Pia studiò per diventare insegnante, Akos si scrisse all’università in ingegneria, Geza fu mandato alla facoltà giuridico-politica (anche se poi preferì arruolarsi in Polizia), mentre Mary studiò per diventare medico. Giorgio purtroppo morì giovane di peritonite.
In quegli anni passati a Fiume, le due donne non furono comunque dimenticate dai loro parenti. Restano ancora oggi giornali, articoli e alcune immagini relative alle opere che i figli di Grazioso Spazzi, Carlo e Attilio, realizzarono a Verona e a Vicenza, e di cui resero partecipi la zia e la cugina.



Fig.15 foto modello statua di Carlo Spazzi




Fig.16 foto da Gradisca
Fig.16 bis – retro foto da Gradisca

Per quanto riguarda gli Schiff, c’è una fotografia spedita ad Augusta da Gradisca con alcuni signori davanti a un caffè, tra i quali di certo c’è Federico Schiff, che aveva costruito proprio lì Villa Italia. Poi c’è una copia decisamente rara della Conferenza di Paolina su “La pace gioverà alla donna?”, che probabilmente proprio Paolina fece arrivare alla sorella, e il calco in gesso della sua piccola mano, che Vittoria conservò per molti anni (ora purtroppo scomparso).
A ciò si aggiungono alcune fotografie di Augusta avanti negli anni realizzate a Milano, anch’esse a testimoniare che lei tornò alcune volte a trovare la sua famiglia.
Nel frattempo la famiglia aveva cambiato nome, assumendo quello più ungherese di Kàrpàty (a volte scritto anche Karpathy, che diverrà poi gradualmente Karpati).
Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, non ebbe grandi conseguenze sulla vita della famiglia. Solo Geza fu mandato al fronte e solo negli ultimi mesi. Tornò però deluso e demotivato, senza più lavoro né voglia di cercarlo.
La prese male anche Pia, che si sentiva ungherese nell’animo e, quando gli austriaci se ne andarono, decise a sua volta di tornare in Ungheria, alle radici della famiglia Kavulyak.
La cosa migliore era capitata ad Akos, che si era laureato, era stato messo a lavorare ai cantieri navali e si era sposato.
Nel frattempo Fiume era cambiata.
In quel periodo era diventata un posto ancora più particolare. Contesa tra Italia e quella che poi diventerà la Jugoslavia, era presidiata da soldati italiani, francesi e inglesi. Poiché non si riusciva a decidere cosa fare, Gabriele D’Annunzio, poeta, patriota, personaggio decisamente particolare, prese il comando di alcune migliaia di ex soldati italiani e, dopo una marcia di 70 chilometri, entrò trionfalmente in città, mentre le altre truppe se ne andavano senza creare problemi.
In attesa che le grandi nazioni decidessero, D’Annunzio proclamò la città indipendente e promulgò delle leggi molto innovative, come il suffragio universale, la giusta retribuzione, l’istruzione gratuita, la pensione di vecchiaia, la parità delle persone, indipendentemente da sesso, razza e religione, e persino il divorzio (molti italiani presero la cittadinanza fiumana solo per separarsi dalla moglie).
Fu un periodo pieno di entusiasmi e passioni, adunate e proclami. Alla fine però le grandi potenze si accordarono e nel 1922 la città divenne italiana, tranne il porto che andò alla Jugoslavia.
Cos’era successo in casa di Vittoria in quel periodo?
Non molto in realtà rispetto a quello che succedeva in città, però abbastanza per quanto riguardava la vita di tutti i giorni. Erano nate le sue prime nipotine, Erna e Nedda. Geza, quel figlio che, tornato dalla guerra, le aveva dato tanti pensieri, si era all’improvviso innamorato di Emma, una giovane ragazza, di famiglia umile, ma che in quegli anni strani si era gettata con passione nella vita. Lei l’aveva fatto uscire dalla sua apatia e lui era tornato in Polizia. Alla fine né György, né Vittoria si sentirono di opporsi al loro matrimonio, anche se, in cuor loro, si sentivano un po’ dei borghesi, rispetto alla famiglia di Emma.
Infine Vittoria aveva raggiunto il suo ultimo obiettivo, era riuscita a comprare una bella casa di tre piani vicino al centro, con un cortile interno. Lì andò a vivere col marito, con Augusta e con la famiglia di Akos al piano di sopra e quella di Geza in quello di sotto. Non c’era Mary perché, dopo essersi laureata e sposata, si era trasferita a Milano.

Fig.17 Casa di Fiume

Fig.18 foto matrimonio Geza

Fig.19 Le 4 generazioni

Nelle 4 generazioni Augusta è l’anziana signora al centro, Gyorgy è il signore anziano a sinistra e Vittoria la terza da sx
Le donne giovani in piedi sono Emma e Elda, le due nuore, e davanti Mary, figlia di Vittoria e Gyorgy. Le due bambine sono le figlie di Akos, Erna e Nedda (la più piccola, con la testa rasata)
La rasatura della testa non veniva fatta per motivi sanitari, ma solo nella convinzione che, così facendo, le ragazze avrebbero poi avuto dei capelli più folti e forti.

Quando nel 1923 cominciarono a nascere anche i figli di Geza e la casa si animò dei loro vagiti e gridolini, sembrò proprio che tutto alla fine fosse finalmente andato al posto giusto.
I nipoti chiamavano la bisnonna Augusta “la nonna-bis”, per distinguerla dalle nonne vere. Vestiva spesso con un pizzo nero sui capelli e uno jabot di pizzo bianco, fissato con una spilla al colletto del vestito. Orami era piccolina e la faccia sembrava ai bambini un po’ brutta e rinsecchita. Era ancora rimasta legata agli aspetti formali di casa Schiff a Milano, che probabilmente aveva cercato di mantenere anche nella sua vita, protestando perché alle undici di mattina non ci si vestiva eleganti per poter ricevere le visite. Viveva quasi sempre nella sua stanza, arredata con vecchi mobili da salotto, che sembravano sempre sul punto di sfasciarsi, e con un letto di ferro, verniciato in nero e oro. Era forse il 1929, aveva avuto una lunga vita (circa 90 anni) e alla fine aveva visto risolversi tanti problemi e rifiorire la sua famiglia. Una sera ebbe un leggero malore e Emma l’aiutò a coricarsi, mettendole accanto una campanella perché chiamasse in caso di bisogno. Non chiamò mai e al mattino la trovarono nella stessa posizione della sera. Qualcuno dice che così muoiono i santi.
Morta la nonna-bis, nonno Giorgio diventò il decano della famiglia, coi suoi 80 anni. Già, Giorgio e non più György, dato che tutti i nomi stranieri venivano italianizzati. Così fu che Akos divenne Agostino (o forse Augusto, in ricordo della nonna-bis). Geza divenne ufficialmente Vittorio, in onore della madre. Ma per tutti rimangono ancora oggi Akos e Geza. Nonno Giorgio aveva ormai i capelli e la barba candidi, portava occhiali con la montatura di metallo e un plaid sulle ginocchia. Era la gentilezza in persona. In fondo era rimasto un insegnante e fu lui ad insegnare a leggere e a scrivere a molti dei suoi nipoti, seduti accanto a lui al tavolo, con davanti un grande abbecedario prima e poi i primi libri di scuola. Era paziente, parlava con calma e con voce dolce e, se gli alunni erano stati bravi, in premio raccontava loro delle fiabe.
Nonna Vittoria, se da un lato andava d’accordo con Elda, la moglie di Akos, dall’altro non aveva proprio legato con la nuora Emma, tanto che per i figli di quest’ultima rimase formalmente la “nonna Karpati”. Ma i nipoti sono nipoti e, pur continuando ad essere parsimoniosa, a Capodanno, quando era tradizione per i bambini andare con una mela in mano a fare gli auguri ai parenti, lei ci infilava una moneta d’argento da 5 Lire, una cifra ragguardevole per allora, anche se raccomandava di metterla da parte, in caso di malattia.
Tutte le mattine aveva l’abitudine di leggere il giornale, “la Vedetta d’Italia”, parlava ancora l’ungherese e il tedesco, oltre a un po’ di croato, tanto da aiutare più avanti la nipote Mirella a tradurre e commentare un’opera di Grillpanzer per gli esami di maturità.
Tuttavia la salute di nonno Giorgio, andò poco a poco peggiorando (arteriosclerosi o Alzheimer). Cominciò a non riconoscere più la casa, a voler scappare, tenuto a bada dalla moglie, contro la quale lui protestava, recalcitrante ad accettare limiti e controlli. Morì il 25 gennaio del 1932. Poco dopo morì di tumore anche zia Mary, che aveva lasciato il lavoro e il marito, tornando a casa e sperando fino all’ultimo un miracolo che non venne.
Rimasta sola, Vittoria lasciò il suo grande appartamento alla famiglia di Geza, che aveva ora quattro figli, ritirandosi in quello a pianterreno, più piccolo.
Anche se aveva accanto i due figli e i sei nipoti, la rigidità e l’autorità con cui li aveva cresciuti ora non favorivano il rapporto tra di loro e lei cominciò a richiudersi sempre più in sé stessa.
In quegli anni i figli facevano carriera. Akos era diventato direttore dei cantieri navali e Geza era un commissario apprezzato. Anche Pia, che ogni tanto veniva in visita, oltre a fare l’insegnante di francese, era riuscita a farsi valere in campo artistico, dirigendo il coro di voci bianche della radio ungherese e dipingendo bei quadri, due cose di cui era davvero appassionata.
Benché in casa non si parlasse mai di politica e nessuno avesse chiesto la tessera del partito fascista (a Geza l’avevano data d’ufficio, per non licenziarlo), le cose anche a Fiume stavano cambiando. La città non era più così aperta e tollerante, aperta a etnie e religioni diverse. Prima gli ebrei avevano cominciato ad andarsene, poi a venir trasferiti. I rapporti con la popolazione croata erano in continuo peggioramento. A scuola c’era anche chi cominciava ad ostentare simboli e distintivi nazisti.
In quella situazione sempre più difficile, Geza nel 1939 chiese il trasferimento, finendo prima a Fano e poi a Bolzano, assieme alla sua famiglia.
Poi scoppiò la guerra. All’inizio sembrò una cosa lontana, in Africa. Nel 1941 si fece all’improvviso vicina per i Fiumani quando Hitler decise di invadere la Jugoslavia, conquistandola in due settimane. Alla fine la provincia di Fiume fu allargata anche ai vicini territori croati, senza però incontrare il minimo consenso tra quelle popolazioni.
La situazione si stava facendo sempre più difficile e allora Akos convinse la vecchia madre Vittoria ad andare a vivere da Geza, dove almeno sembrava che ci fossero meno pericoli.
Se i rischi sembravano effettivamente minori, non era così per la qualità della vita che invece andava peggiorando ogni mese. Vittoria aveva ormai quasi ottant’anni e mentalmente non riusciva ad accettare limitazioni e privazioni di ciò a cui era abituata, come il caffè, che teneva ostinatamente nascosto al resto della famiglia. Si lamentava della scarsa qualità e soprattutto della scarsezza del cibo.
Se quella era una situazione fastidiosa, i veri problemi dovevano ancora venire.
Giunsero nel 1943, non tanto alla caduta del fascismo, quanto l’8 settembre, quando il Regno d’Italia sembrò dissolversi nell’incertezza generale e nella confusione che ne seguì, soprattutto in zone come Fiume e Bolzano che di fatto avevano una consistente presenza di truppe tedesche già presenti sul territorio. In entrambi i luoghi, alle truppe italiane fu comandato di arrendersi senza combattere e i tedeschi si insediarono stabilmente nei posti di comando da lì in avanti sino al termine della guerra. Stavolta la vita cambiò davvero.
A Fiume Akos fu arrestato, accusato perché non aveva mai preso la tessera del partito fascista. Per sua fortuna la cosa si risolse, quando si capì che lui era uno davvero esperto nel suo campo e che la politica non aveva mai fatto parte dei suoi interessi.
Da pochi mesi anche Geza era stato rimandato a Fiume. Per fortuna c’era andato senza la famiglia. Quando le truppe italiane cominciarono a disertare o ad arrendersi ai tedeschi, dovette decidere quanto e come rischiare. Si dice che i partigiani gli fecero avere un lasciapassare per la stima che si era conquistato negli anni. In ogni caso lui prese un vestito di suo fratello, che gli andava largo, e si incamminò per i campi, lasciandosi alle spalle la città in cui era nato e vissuto per tanti anni.
A Bolzano era successa un’altra cosa: il figlio più grande di Emma, Giorgio, era appena partito militare e la sua caserma era a pochi chilometri. Obbedì agli ordini, quando il suo comandante disse al reparto di arrendersi e così finì, come migliaia di altri militari, su un treno diretto in Germania.
Per molti giorni Vittoria visse assieme alla moglie e ai figli di Geza l’incertezza e l’angoscia per la mancanza di notizie su cos’era capitato ai loro cari.
Passarono due mesi prima che Geza riuscisse a tornare a casa e altri mesi prima che Giorgio riuscisse a scrivere dal campo di concentramento in Germania che era vivo e salvo, anche se tanto affamato.
L’ultimo anno di guerra fu solo un continuo declinare della qualità di vita, confinati dai tedeschi in poche stanze della casa di Bolzano (le altre stanze se le erano prese per farne uffici), con Geza in un ufficio insignificante della Polizia e mamma Emma tutta presa a far arrivare pacchi al figlio e ad aiutare quei prigionieri che occasionalmente tornavano a casa, sperando che allo stesso modo qualcuno aiutasse anche Giorgio.
Il destino fu bizzarro e portò Giorgio a spalare le macerie dei bombardamenti in una cittadina tedesca del Baden. Era Mannheim, già, proprio la città da dove Samson Schiff era nato ed era partito un secolo prima per venire a Trieste.
Fig.20 Incisione colorata di Mannheim appartenuta ad Augusta)

Erano iniziati anche i bombardamenti, che distrussero o lesionarono circa il sessanta per cento degli edifici cittadini.
Poi nel 1945, verso la metà di aprile, iniziò la ritirata tedesca, prima graduale e organizzata, poi sempre più massiccia e incontrollata.
In Alto Adige Americani e Inglesi risalirono con una certa calma la valle dell’Adige, cercando di evitare inutili scontri e morti con chi si ritirava. I Tedeschi lasciarono uno strano vuoto dietro di loro, che fu riempito un po’ alla volta, tra dubbi e incertezze, su come muoversi in quel territorio strano, in cui non si capiva bene se la popolazione di lingua tedesca era tra i vinti o tra i vincitori.
Tre mesi dopo, una domenica mattina, Giorgio tornò a casa.
Diversa la situazione a Fiume. La città era stata occupata il 3 maggio dalle truppe slave di Tito, dopo che i Tedeschi se n’erano andati, distruggendo quanto restava degli impianti e delle fabbriche sopravvissuti ai pesanti bombardamenti inglesi. L’obiettivo strategico di Tito e della Russia era occupare la maggior parte possibile del territorio verso la Venezia Giulia, prima dell’arrivo di Inglesi e Americani. Gli Italiani in questo gioco delle grandi potenze non contavano.
La tragedia fu che a Fiume, come nel resto dei territori che vennero così occupati, confluirono due atteggiamenti, entrambi negativi: la vendetta sui soprusi e sulle violenze subite da fascisti e nazisti e la determinazione a bloccare qualunque tentativo di mettere in dubbio l’instaurazione di un governo socialista e in mano alle popolazioni slave.
Fu in questo scenario che Akos venne di nuovo arrestato, stavolta perché ritenuto un collaboratore dei fascisti. Questa volta la prigionia fu lunga e molto dura e solo nel 1946, dopo che le testimonianze degli operai chiarirono che lui era una persona politicamente affidabile e che aveva solo fatto il suo lavoro, poté tornare a casa. Ormai era fisicamente molto provato e, dopo pochi mesi, morì. A quel punto la vedova e le due figlie lasciarono la città e andarono a Bolzano, in attesa di capire meglio il da farsi.
Mentre loro lasciavano Fiume dirette verso l’Italia, c’era chi viaggiava in direzione opposta. Era la nonna Vittoria che testardamente voleva tornare nella casa che tanti anni prima aveva comprato per la sua famiglia. Riuscì ad arrivarci e, con ostinata fermezza, ci restò finché poté, fino al 1949.
Nonostante le speranze degli italiani che Fiume restasse almeno quella città autonoma e multietnica che era stata per secoli, fu ben presto chiaro che sarebbe stato già tanto se almeno Trieste fosse rimasta italiana.
L’unica cosa decisa in quella regione fu che coloro che accettavano di adeguarsi al nuovo regime potevano restare. Gli altri dovevano cedere allo stato buona parte di ciò che avevano e andarsene in Italia. Lì avrebbero dovuto essere fraternamente accolti. In realtà la maggioranza finì in campi di raccolta fatti di baracche, spesso malvisti dalla popolazione, che li considerava filo-fascisti scappati dalla Jugoslavia socialista.
Vittoria Spazzi-Karpati fu tra gli ultimi a lasciare Fiume, sicuramente l’ultima della famiglia. Dovette cedere la casa allo stato e poté portare con sé solo poche cose. Ovviamente si recò a Bolzano dal figlio Geza, ma le cose erano cambiate da quando era andata via quattro anni prima. Soprattutto era peggiorata lei, il suo corpo, la sua salute, ora che aveva 85 anni. Poco dopo fu necessario ricoverarla in una casa di riposo per persone anziane e malate vicino a Trento. Poiché non era più in grado di lasciare il letto Geza trovò una donna che l’assistesse di cui pagò la retta.. Era triste e doloroso andarla a trovare, vederla con la mente ancora lucida in quel corpo in disfacimento. Ci vollero quasi due anni perché giungesse la sua ora, finalmente anche per lei, il 25 luglio 1951.
Così termina la storia di Augusta Schiff e di sua figlia Vittoria, una storia durata in fondo dal 1839 al 1951, ben 112 anni; quanto erano cambiati in quel periodo l’Europa, il modo di vivere e anche quello di pensare!
Dei figli di Vittoria, Geza morirà tre anni dopo, mentre Pia vivrà fino al 1965, restando però sempre in Ungheria.
Essendo delle donne, sia Augusta che Vittoria non hanno tramandato il loro cognome ai discendenti. Così sta accadendo anche nella famiglia Karpati, dove si possono ormai contare sulle dita di una mano quelli che portano ancora questo cognome. Però molti di più sono i discendenti che hanno avuto e che ancora ricordano, anche se come figure lontane, la nonna-bis Augusta e nonna Vittoria.
Non possiamo dire che siano state delle donne eccezionali. Però è giusto riconoscere che sono state decise, determinate, a volte anche coraggiose nel portare avanti la propria famiglia, affrontando e superando molte difficoltà e curando che i loro figli crescessero dando il giusto valore alla cultura e avessero una mentalità aperta.

Questa è una riduzione di quanto è stato scritto di Augusta e dei suoi discendenti nel libro di Frank Gent, quello dedicato alla famiglia Schiff. Lì si racconta più in dettaglio anche la storia dei figli e dei nipoti di Vittoria.
Su questo blog però ho ritenuto giusto mettere in risalto soprattutto la loro storia, accanto ai membri della loro famiglia originaria, a cui furono più vicine in quell’ormai lontano periodo di fine ‘800.